Intervista di Mariella Morosi pubblicata su Italia a Tavola

Riccardo Ricci Curbastro, in qualità di presidente Federdoc, salvaguarda il patrimonio enologico italiano. La mission principale è impedire imitazioni delle nostre denominazioni, tutelando così consumatori e produttori

Riccardo Ricci Curbastro , è romano per nascita ma ha la Franciacorta nel cuore. È della sua famiglia il Museo agricolo e del vino che suo nonno Gualberto allestì nell’86 a Capriolo (Bs), e che quest’anno festeggia il 30° anniversario dalla fondazione. Così come della sua famiglia sono i vigneti e la cantina dove si è formato nel suo percorso di imprenditore. Ma è anche cittadino del mondo perchè da anni rappresenta e tutela i nostri vini in tutti i continenti, in qualità di presidente della Federdoc, la confederazione nata nel 1979 che svolge un’attività a tutto campo per la tutela, la promozione e la protezione dei vini italiani a Denominazione di origine e a Indicazione geografica. È la persona giusta per fare il punto su un settore prima voce dell’export del nostro agroalimentare.

Qual è oggi lo stato di salute del vino italiano di qualità?
Il comparto vive una fase decisamente interessante e gode di un grande appeal, soprattutto presso i principali mercati internazionali. In qualche modo credo che anche l’Expo abbia contribuito a esaltare l’immagine del Made in Italy in campo agroalimentare. Spetta a noi, quindi, il compito di valorizzare e tutelare un patrimonio costruito nel tempo. E non solo da un punto di vista economico, ma anche sociale, culturale, storico e ambientale.

Ma come rappresentare un mondo così articolato, con tante, forse troppe denominazioni?
Oggi le nostre denominazioni – frutto di territori vocati e della tradizione di capacità artigianale secolare – si sono imposte nel mondo grazie anche a rigorosi controlli sull’origine e la qualità, come eccellenze dell’enologia. Ma proprio per la varietà dei nostri territori ne abbiamo ben 405 tra Doc e Docg (ora Dop) a cui si aggiungono le 118 Igt (ora Igp), una proliferazione che ci è sfuggita di mano. Abbiamo denominazioni che nessuno rivendica, esistenti quindi solo sulla carta, frutto di azioni politiche che rappresentano meri doppioni di altre storiche, e come conseguenza abbiamo un consistente gruppo di denominazioni di cui i consumatori non hanno mai sentito parlare e di cui non conoscono giustamente l’esistenza ma i cui costi di certificazione gravano comunque nel sistema. Il rischio che corriamo è quello di svalutare il nostro patrimonio enologico agli occhi dei consumatori mondiali, di perdere la capacità e gli strumenti per tutelarlo e proteggerlo dalle inumerevoli aggressioni che subisce.

A proposito di tutela, in quali battaglie si è impegnata negli ultimi tempi Federdoc?
È nostro compito, anzitutto, garantire in tutte le sedi nazionali e internazionali i vini italiani, ma certe volte affrontiamo vere e proprie battaglie. Mi viene in mente quella combattuta per impedire che la Donuts, la società che aveva vinto l’asta indetta della Icann (Internet corporation for assigned names and numbers) per l’utilizzo internazionale dei domini “.wine” e “.vin”. Abbiamo combattuto per anni, mettendo a disposizioni risorse umane ed economiche, ma ne valeva assolutamente la pena: pensate a cosa sarebbe accaduto se un qualsiasi soggetto avesse potuto utilizzare, per fare un esempio, il dominio Chianti.wine. Un danno irreparabile per i nostri vignaioli e per i consorzi. E una beffa per il consumatore, vittima a sua volta di quello che a tutti gli effetti sarebbe stato un “trucco”.

Una battaglia nella quale un ruolo determinante è stato giocato da Efow (European federation origin wines).
Abbiamo fatto fronte comune e la Federdoc ha avuto il merito di tirare la volata a un gruppo compatto di realtà europee ben consce del pericolo che si stava correndo. Efow, della quale per anni sono stato presidente, sta svolgendo un ruolo di primaria importanza nella tutela dei vini a Denominazione di origine e a Indicazione geografica.

Un’altra importante vittoria è stata quella che vi ha visto ottenere la sospensione della proposta di liberalizzazione dell’utilizzo del nome dei vitigni nell’etichettatura dei vini Dop e Igp.
Certo, anche in questo caso si è lottato per difendere tanto i produttori quanto i consumatori. Il fatto che una qualsiasi azienda dell’altra parte dell’emisfero potesse utilizzare, faccio un esempio, il nome “Lambrusco” sulla propria etichetta avrebbe avuto conseguenze devastanti. Si sarebbero azzerati di colpo concetti come territorialità, storia, tradizione.

Federdoc dunque svolgerebbe essenzialmente un ruolo di sentinella? 
Per fortuna non è così. O almeno non è sempre e solo così. In parallelo noi ci dedichiamo a un’intensa attività di educazione e informazione su quello che è il nostro patrimonio vitivinicolo. Uno dei nostri obiettivi principali è proprio quello di migliorare la conoscenza dei vini italiani, lavorando su tutti i target di riferimento, dai buyer alla stampa, dagli operatori di settore al consumatore finale. Il tutto grazie a un fitto calendario di eventi, in Italia ma soprattutto all’estero.

Ed è in questo contesto che va collocata Equalitas, l’iniziativa che avete presentato all’ultimo Vinitaly?
Equalitas, nata con il patrocinio del Mipaaf, è il frutto di un intenso lavoro di anni al quale hanno partecipato, oltre che Federdoc, Uiv (Unione italiana vini), Csqa-Valoritalia, 3a Vino e Gambero Rosso. Si tratta, per riassumere, di un modello di sostenibilità assolutamente unico e innovativo, supportato da uno standard di controlli all’avanguardia. Uno standard volontario che risponde a precisi parametri misurabili da un ente terzo: biodiversità, consumi, impronta carbonica, gestione fitosanitaria, impatto sociale delle aziende e loro interazione con il territorio di appartenenza. È un’iniziativa nella quale crediamo moltissimo, proprio perché dotata di grande appeal soprattutto per alcuni mercati di riferimento, primo tra tutti quello statunitense.